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Nella scuola che ho conosciuto

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo contributo di Nadia Ferrari per la giornata di blogging sulla Scuola.

Ho sostenuto con piacere l’invito a parlare di scuola senza immaginare, per me, insegnate di scuola dell’infanzia statale da 35 anni (in via di dipartita) quanto risultasse difficile parlarne. Poi ho compreso che la mia difficoltà in parte stava nel dover parlare della scuola generalizzando… questo  mi riesce impossibile.

Tuttavia la mia riflessione si è messa irrimediabilmente in moto e la complessità seppure con paura mi è sempre apparsa come una sfida da raccogliere.

A  tutt’oggi la scuola ancora somiglia ad una “scatola nera” entro la quale si sa cosa c’è stato e cosa c’è, e non si sa cosa ci dovrebbe essere.

In altre parole il terreno scolastico è ancora indefinito, indefiniti  i tratti distintivi e le pertinenze che la distinguono da altre agenzie educative similari.

Nella scuola imperano come legati da un inesorabile destino due termini “educazione e insegnamento”, che coincidono e nelle stesso tempo si differenziano, dividendola spesso nella disputa su a chi consegnare il trono.

Disputa antica ma sempre presente che informa la scuola marcando idee, pratiche, metodi e progetti. Due essenziali registri mentali, due essenziali sensibilità: DUE SGUARDI.

Il primo, curioso di novità, di desideri, di emozioni, di fantasie, genesi di profonde soddisfazioni e domande ma anche luogo di passioni, di paure, di dolore. Uno sguardo a cui rivolgersi e allo stesso tempo averne paura, un modo diretto di sentire la realtà, pensarla, toccarla, apprenderla. Uno sguardo che ha permesso di descrivere e di spiegare il mondo attraverso molteplici narrazioni mitologiche. Lo sguardo del racconto che nasce quando si incontra il profondo, che richiama la fabulazione per quello che la mente non sa spiegare, sciogliere, elaborare: E’ l’universo delle emozioni, degli affetti, dei sentimenti.

Il secondo: è la ragione, sguardo sul mondo meno diretto, meno primario, uno sguardo forse meno libero, uno sguardo filtrante che fa passare non ciò che la nostra mente vede e sente, ma ciò che la ragione conferma.

Uno sguardo che smonta il complesso per cercare di capire, divide e analizza la realtà per leggerne le basi costitutive, i legami, le leggi che la regolano. Uno sguardo più attento e critico ma anche più difeso.

Si manifesta così uno dei grandi miti della conoscenza moderna: la separazione nella natura umana di ciò che è primario e di ciò che è secondario: la ragione dalla passione. Per molti questo sguardo ha illuso di conoscere e dominare il mondo, le paure, le fantasie. Sapere è potere. Ma poi al crescere delle certezze scientifiche, sono progredite le incertezze, si sono manifestate nuove ignoranze: si è perduto il trono della sicurezza che poneva l’uomo al centro del mondo e da dominatore del mondo passa all’abitante di un sole dell’hinterland, ai margini di una galassia mille volte più misteriosa di quanto la mente poteva immaginare.

Chi propende per la scuola dell’educazione allora vede e vuole una scuola attenta alla passione, chi si schiera per la scuola  dell’insegnamento, vede e vuole una scuola rigorosa, soprattutto nella programmazione, nell’apparato concettuale e nozionistico, attenta alle conoscenze nel senso più restrittivo del termine, intendendo spesso solo la dimensione della ragione.

Mi è capitato di trovare nell’opinione pubblica questa stessa differenza tra chi si è trovato a scegliere tra scuola pubblica o privata che nel simbolico senso comune ripropone spesso la dicotomia sopra enunciata, velatamente a scapito della pubblica. Così dalla dualità generatrice discende la figure professionale che legittima il ruolo dell’insegnante:  è meglio che approcci il sapere in modo freddo, razionale, sterile, “scolastico”, oppure deve e può “appassionarsi” ed essere pronta ad affrontare ogni situazione divenendo all’occasione un po’ mamma, un po’ psicologa, un po’ amica, un po’ prete… permettendo alla vita di mischiarsi alla scuola? Messa così la problematica è mal posta perché ripropone una dualità che nella realtà non esiste.

Palare di scuola è difficile? Perché la Scuola nell’astratto non esiste. Esistono stratificate nel tempo e nelle persone le sue diverse anime, che si affidano a tanti e diversi modelli d’intendere l’educazione e che su quei modelli si organizzano. Spesso nella scuola italiana ci si ritrova con modelli diversi anche tra le diverse classi e scendendo ancora di più nel parziale anche tra insegnate e insegnate.

Esistono tante e diverse Scuole fatte dalla gente che dentro ci lavora e dagli utenti che le frequentano sia nella pubblica che nella privata. Nella mia esperienza ho visto tantissimi insegnanti appassionarsi, lavorare con impegno, tentare di dare soluzioni possibili a problemi a volte impossibili, così come ho visto insegnanti chiuse, sfiduciate, gettare la spugna e arrendersi, arroccarsi dietro a programmi calcoli e grammatiche. Ho visto, purtroppo, insegnanti ammalarsi gravemente e impazzire.

Questo è l’esistente. Nonostante la normativa, con dei programmi assai innovativi  “le nuove indicazioni” che come dice il termine dovrebbero appunto dare indicazioni sulla configurazione della  scuola italiana, almeno in teoria.

Quello che con semplicità definiamo “Scuola” è il paesaggio che ognuno di noi da allievi o genitori o insegnanti si è trovato ad attraversare, un paesaggio, percorso da vie infinite, a tratti pianeggiante e facile da percorrere, a tratti tortuoso e aspro con salite che mettono alla prova la resistenza di tutti, in cui ogni anfratto dischiude e narra una storia particolare… unica nel bene e nel male.

Parti che spesso faticano a sentirsi collegate tra loro in un tutto, parti che forse hanno perso il desiderio di cercare il nesso che può fare da struttura che connette. Per comprendere il pluriverso scuola diviene necessario passare dal locale al globale attraversando ponti semantici così ampi per dimensioni e qualità nei quali è molto difficile incontrarsi.

Non mi rimane che parlare di me nella scuola, della mia esperienza e dell’amore che verso di essa ho imparato a nutrire.

La scuola come la conosco io, è ed è stata, una scuola abitata da padri  o madri pedagogici importanti: Hoven, Froebel, Agazzi e Montessori, e poi nel 2000 i costruttivisti Bateson. Maturana, Varela, Morin, Gardner. Ognuno di loro con la loro “genitorialità” ha lasciato la rappresentazione di  un bambino e di conseguenza un modo per educarlo. L’eredità è grande e la scuola che ho conosciuto io è una scuola che ha raccolto delle sfide.

Nella scuola che ho conosciuto io, sopravvive l’idea di un lavoro non prendibile con le sole tecniche, a me come insegnante non è servito imparare la tecnica per parlare in modo assertivo, o imparare la tecnica per gestire i conflitti, quando mi ci sono trovata in mezzo ho dovuto cercare di coniugare la mia relazione con il conflitto e il senso che avremmo potuto io e i miei allievi in quel momento attribuire.

Facilmente si possono addestrare venditori di un azienda a presentare un volto presentabile… perché il volto che si presenta è anche quello dell’azienda, come dire “se il segreto del successo professionale è quello dell’autenticità non dev’essere difficile fingerla” (Cerioli).

Nella scuola che ho conosciuto io, le tecniche funzionano quando funzionano le persone, quando le persone sanno riconoscersi problematizzando il senso del loro fare quotidiano e della loro fatica.

Nella scuola che ho conosciuto io spesso un lavoro si fa e si distrugge, si crea, si perde… quotidianamente si cerca, si cerca condividere.

Nella scuola che ho conosciuto l’incontro con l’incompiutezza dell’insegnante ha cavalcato con l’inconsistenza  di chi al posto di dotarsi a dare risposte si da come persona che cerca domande.

Nella scuola che ho conosciuto io, come ci ha ricordato Morin “gli insegnanti non assomigliano a quei lupi che marcano il loro territorio con l’urina e mordono quelli che lo violano. Ciò che è più temibile per loro è la mancanza di eros che è allo stesso tempo desiderio, piacere e amore, desiderio e piacere di trasmettere amore per la conoscenza e amore per gli allievi”.

Il gesto educativo a volte incanta, forse spaventa. Igor Salomone ci insegna si sente il bisogno di qualcosa che ancora non siamo pronti a scorgere, a capire ed ad amare: in-segnare.

L’insegnare nella sua dimensione squisitamente costitutiva di “lasciare un segno” di sé nell’incontro con gli allievi attraverso la conoscenza.

E quando si pensa a questo modo di essere dalla scuola non si può che riferirsi alla scuola pubblica, perché quando l’extracomunitario, lo zingaro, il giostraio, il disabile domandano il loro diritto di educazione ed istruzione così come è previsto dalla nostra Costituzione, è nella scuola pubblica che devono trovare ospitalità.

Nella privata, possono non esserci le risorse necessarie, posti disponibili o dato che sceglie delle tendenze,  orientamenti pedagogici o religiosi non condivisibili.  La scuola privata, nello Stato italiano  può esistere e deve fare la sua offerta formativa alternativa, di indirizzo,  ma è quella pubblica è la scuola di tutti.

Che tutti come cittadini abbiamo il diritto di chiedere, di avere e abbiamo il dovere di migliorare… al di là delle nostre scelte da individui.

La scuola pubblica è una delle più grandi ricchezze che abbiamo.

Nadia Ferrari

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